di Marco Travaglio
l'Unità, 13 luglio 2008
La telefonata arrivava alle ore più
impensate, annunciata dalla voce dolce di Morena, la moglie. «Ti passo
Gianfranco». «A Trava’, stammatina m’hai proprio fatto godereee…». E
giù a ridere su Bellachioma, Uòlter, James Bondi.
La prima volta
che si fece vivo ero appena stato al Satyricon di Luttazzi, marzo 2001:
«Ora quello rivince e ci fa un culo così. Io ci sono già passato,
adesso tocca a te. Ma, quando vuoi, il mio programma per te è sempre
aperto».
Per cinque anni casa Funari fu per me l’unica porta
aperta in tv, o quasi. Nello studiolo disadorno di Odeon, alle porte di
Milano, capii che quell’omino barbuto e tossicchiante, aggrappato al
bastone e all’eterna sigaretta, era un grande della tv.
Gli
piaceva sfatare i luoghi comuni e le verità ufficiali, cioè le bugie:
per smontare quella dell’assoluzione di Andreotti (in realtà
prescritto, dunque colpevole di mafia fino al 1980) aveva promosso una
vera campagna, diventando amico del procuratore Caselli.
Nella sua
vita aveva guadagnato molti soldi, ma non vi era attaccato. E questo
era il suo segreto, oltre al fiuto felino che gli faceva annusare in
anticipo quel che «sente la gente». Perciò piaceva così tanto agli
italiani semplici. Perciò Berlusconi l’aveva voluto con sé e per lo
stesso motivo l’aveva poi cacciato per ordine «del Principe», cioè di
Craxi. Perciò la cultura ufficiale lo snobbava, anche se per la cultura
ha fatto più lui di cento professoroni (o forse proprio per questo).
Ieri è morto un uomo libero.
E la televisione italiana, da oggi, è ancora meno libera.